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«GUERRA IN UCRAINA, L’UNICA SPERANZA È LA MEDIAZIONE CINESE»

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Il professor Varsori: «Per troppi anni l’Occidente ha chiuso gli occhi su quanto stava accadendo in Russia»

 

Quel che doveva succedere non è accaduto. Le sanzioni non hanno fermato la Russia, Putin ha sbagliato i calcoli pensando a una guerra-lampo, ma intanto gli scontri e i bombardamenti proseguono. Assieme al professor Antonio Varsori - tra i maggiori storici dell’integrazione europea e della politica estera italiana, titolare dalla cattedra “Jean Monnet” di Storia dell’integrazione europea all’Università degli Studi di Padova, Presidente della Società Italiana di Storia Internazionale nonché membro del Comitato per la Pubblicazione dei Documenti Diplomatici Italiani del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale - abbiamo cercato di ipotizzare gli scenari che si delineano adesso. Cercando anche di capire perché i principali analisti non avevano previsto che si arrivasse all’invasione dell’Ucraina.

Professore, nell’intervista che ci aveva gentilmente concesso a febbraio aveva illuminato molti aspetti di una questione oltremodo complessa. E tuttavia, soltanto poche settimane fa, la sensazione sua e dei principali analisti era quella di «una reciproca dimostrazione di forza fra le parti», destinata però a non sfociare in una guerra.

«Siamo stati quasi tutti troppo ottimisti. Ipotizzavamo forme di pressioni da parte della Russia ed eventualmente un’operazione militare limitata a Est dell’Ucraina; non un’invasione su larga scala come quella che si sta verificando in questi giorni. Detto questo, è vero però che le condizioni che Putin pare aver posto per negoziare non sono molto lontane da quelle che ci immaginavamo: il riconoscimento dell’annessione della Crimea e delle due repubbliche indipendenti di Donetsk e di Lugansk e, soprattutto, che l’Ucraina non entri a far parte dell’alleanza atlantica e dichiari una sorta di neutralità».

In questo senso, ritiene che da parte dell’Occidente ci sia stata una sorta di superficialità nel momento in cui doveva trattare per non arrivare al conflitto?

«Quello che è evidente è che c’è stata una certa mancanza di capacità di previsione. Gli Stati Uniti hanno ripetuto più volte l’allarme “domani comincerà l’invasione, domani comincerà l’invasione”, ma era un richiamo che ricordava quello della favola in cui Pierino grida “al lupo, al lupo”, senza credere sul serio che il lupo potesse arrivare, e cioè, fuori di metafora, che l’operazione assumesse i contorni dell’invasione del Paese. Dobbiamo tenere presente che il conflitto ha radici molto profonde, che risalgono indietro nel tempo, ponendo interrogativi sulla nazionalità ucraina e su come le tendenze separatiste sono state viste dalle leadership russe nei decenni che si sono susseguiti, dall’inizio del ’900 a oggi. E, diciamoci la verità, forse il punto è che, da parte occidentale, non si è ben riflettuto su cosa significasse la dissoluzione dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90. L’errore di partenza è stato compiuto già allora, ritenendo che la Russia avrebbe accettato senza problemi un’economia di mercato e l’introduzione di un sistema liberale. C’è un altro aspetto da sottolineare: quando Putin è andato al potere l’Occidente non ha saputo leggere certi segnali, che pure era ben precisi. Che quello della Russia sia un sistema politico autoritario era ben chiaro sin da subito, ma è stato accettato senza particolari problemi. Non dimentichiamo che una delle prime mosse di Putin è stata la terribile guerra in Cecenia, che non ha smosso reazioni a Occidente. E quando nel 2008 c’è stata quella in Georgia, alla fine dei conti, è stato accettato che la Russia facesse quello che voleva. È vero che all’epoca il governo statunitense era debole, ma si è lasciato che Putin ricreasse un suo spazio di influenza senza porsi particolari problemi. In che termini si potesse rispondere all’epoca è difficile dirlo, ma eventuali sanzioni potevano essere introdotte già allora. Agendo per tempo, forse, non si sarebbe arrivati dove siamo oggi».

E se invece guardiamo al futuro, dove si arriverà?

«Le opzioni sono diverse. Premessa: l’operazione invasione si sta rivelando più complessa di quanto lo stesso Putin immaginasse. È vero che la Russia sta utilizzando solo una parte del potenziale del suo esercito, ma succede perché, per fortuna, l’Ucraina non è la Cecenia e i media stanno raccontando quanto sta accadendo come non hanno fatto a suo tempo. E tuttavia le sanzioni economiche, per quanto pesanti, non impediscono a Putin di proseguire nel suo disegno, per cui, ed è la prima opzione, possiamo ipotizzare che nel giro di qualche settimana l’esercito russo possa sconfiggere le forze ucraine, anche se – attenzione al distinguo – non i singoli cittadini, che non potranno mai essere controllati. L’obiettivo sarà comunque il conseguimento di una vittoria militare e la fine della leadership di Zelensky in Ucraina. Seconda opzione, all’interno della Russia esistono spinte che potrebbero costringere Putin a cambiare politica o addirittura regime: la vedo difficile nel breve periodo, ma è anche questa una possibilità. La terza opzione è quella peggiore e comporta un ulteriore aggravarsi del conflitto con il coinvolgimento di alcuni Paesi dell’area atlantica. Ma questo è bene non accada, perché le conclusioni non le potrebbe prevedere nessuno. In mezzo a questi scenari ce n’è uno ulteriore: l’intervento di qualcuno che riesca a mediare, che sia Israele o la Cina, facendo cedere qualcosa sia a Zelesnky sia a Putin».

È lo scenario migliore da tutti i punti di vista: umanitario ed economico.

«Si potrebbe andare in questa direzione proprio perché ci si rende conto che, se la guerra prosegue, le cose peggiorano per tutti. In primis per la popolazione, ovviamente, ed è l’aspetto principale da considerare, con migliaia di morti e milioni di profughi. Sul piano economico, poi, non dimentichiamo che le sanzioni colpiscono la Russia ma anche l’Occidente, e l’Italia, molto dipendente dalle forniture energetiche, è uno dei Paesi più danneggiati: ce ne stiamo rendendo conto già da ora facendo i conti con l’aumento del prezzo del gas e del petrolio, e quindi dei carburanti, senza considerare l’aumento dei costi delle derrate di grano e mais. In questa fase assistiamo a uno sforzo del nostro Governo per cercare fonti alternative, ma non le si trovano fa dall’oggi al domani, tanto più che, anche a questo riguardo, entrano in ballo diverse variabili, come le politiche sui livelli di produzione, e quindi sui prezzi, applicate dall’Opec, che però al momento non sta rivedendo le sue posizioni. Sono tutti effetti di cui ci stiamo accorgendo ora, ma tra un mese o due la situazione sarà ancora più pesante. Non dimentichiamo, inoltre, che i mercati reagiscono emotivamente e che la prospettiva di uno scenario di pace influenzerebbe anche loro».

Lo scenario peggiore, invece, contempla un coinvolgimento italiano diretto. E la base Usa di Aviano è un bersaglio potenzialmente sensibile.

«Non voglio nemmeno pensarci. Io credo che nessuno voglia scherzare con l’idea di una guerra nucleare. C siamo andati vicini due volte negli anni della guerra fredda: prima con la crisi dei missili del ’62 e una seconda volta – ma l’abbiamo saputo soltanto dopo – nell’83, quando le forze sovietiche arrivarono all’ultimo stadio di allarme prima di premere i bottoni. È chiaro che tutto è possibile, ma non a caso questa opzione nella strategia militare viene indicata in inglese con l’acronimo MAD, che significa “pazzo”, e che qui sta per Mutual Assured Destruction: la distruzione reciproca, dopo la quale non c’è più nulla».

La situazione lose-lose, in cui perdono tutti.

«Esatto. E non voglio nemmeno prenderla in considerazione, anche se non possiamo escludere nulla. Ma non è un caso se, sulla questione della fornitura di armi agli ucraini, esiste una certa cautela. Zelensky chiede l’istituzione della no fly zone ma la Nato non è pronta a concederla, e non è pronta perché il rischio è quello di un’escalation che non si sa dove potrebbe portare. Ecco, io mi auguro che tutti, a partire da Putin, compiano scelte razionali. La guerra fredda si è protratta per cinquant’anni senza che ci si spingesse alla soluzione nucleare proprio perché tutti sapevano che lì non si doveva arrivare».

Quanta fiducia dobbiamo riporre nell’ipotesi della mediazione?

«Il suo buon esito dipende da molti fattori: quanto si protrarrà la guerra, la capacità di resistere del popolo ucraino, come Putin riuscirà a far fronte alle sanzioni economiche e all’opposizione interna. Se si arriva a capire che i costi sono assolutamente superiori ai benefici è più facile si giunga a una mediazione vincente. Ma ogni mediazione prevede che le due parti rinuncino a qualcosa e molto dipende dalla forza del mediatore. Per essere schietti: se media Israele è un conto, un altro conto se lo fa la Cina, che ha più forza e rapporti economici di cui lo stesso Putin ha bisogno. Quali siano i termini della soluzione è difficile ipotizzarli, ma io credo possa essere l’unica speranza. Bisogna vedere se la Cina ha la voglia e l’interesse di farlo».

 

 

Diego Zilio

Ufficio Stampa Confapi Padova

stampa@confapi.padova.it

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